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Economia reale e dibattito pubblico


Quando negli studi televisi o nei telegiornali sento parlare di ‘economia reale‘ provo sempre un filo d’emozione, per quel tono di pragmatismo che quasi sempre questi ‘appelli’ suscitano nelle orecchie del pubblico, volutamente.

Ma l’illusione dura pochissimo, quasi sempre la flebile emozione si spegne d’un soffio quando poi i singoli casi di ‘economia reale’ emergono nel dettaglio dai flussi di retorica della comunicazione televisiva.

Naturalmente qualsiasi imprenditore è un soggetto economico in qualche modo ‘pragmatico’, per definizione.

Molto spesso però l’attitudine al sano realismo mette troppo facilmente da parte la possibilità di indagare più profondamento il processo e il tessuto produttivo, a partire dalle sue premesse teoriche di funzionamento.

Facilmente nel racconto pubblico comune l’economia reale si assimila direttamente all’esistente, dimenticandosi che così facendo si mescolano in un unico calderone produttivo le best practice insieme alle più bizzarre congerie economiche, in un’apoteosi auto-assolutoria che di solito, per tornare ai salotti televisivi, confonde il pubblico e strizza l’occhio all’ignoranza, semplicemente.

Non importa se l’artefice della capriola argomentativa sia l’analista economico in diretta da Wall Street o l’inviata che intervista vecchiette sulla piazza del mercato ortofrutticolo di zona.

L’economia reale esprime i suoi latrati indistintamente, mescolando il bianco col nero senza lasciare nessuno spazio all’analisi puntuale, all’effettiva rielaborazione critica dei percorsi economici reali che governano le merci, i servizi e il lavoro, in Italia e nel mondo.

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