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Le ottobrate romane


Fuori porta a tutti i costi e se non si avevano i baiocchi per pagare il carretto, per bere e per mangiare, si andava al Monte dei Pegni a lasciare le cose di casa o del vestiario che si possedevano, in cambio di pochi spicci, che permettevano di non perdersi i bagordi!

Oggigiorno giustifichiamo la fuga fuori porta con la scusa di volerci concedere una boccata d’ossigeno, strangolati come siamo dall’inquinamento cittadino, oppure con la voglia di riconquistare quella parte di natura negata al cittadino che vive soffocato dal cemento, in realtà il Romano la voglia di evadere ce l’ha sempre avuta nel sangue, anche quando non esisteva né smog, né stress, si tratta di antiche tradizioni che il popolo si porta dentro!

Le festose scampagnate fuori porta delle tiepide ottobrate romane attiravano l’attenzione dei viaggiatori stranieri che nel settecento e nell’ottocento avevano preso l’abitudine di venire nella culla della civiltà antica. Quando nel nord Europa ad Ottobre faceva già freddo ed il cielo era velato di spesse nubi plumbee, da noi era ed è tempo di vendemmia, perché il vero protagonista della festa fuori porta era proprio il vino e la gente la domenica usciva dalla città con la voglia di divertirsi.

Si trattava praticamente di rimanere legati all’antica tradizione dei Baccanali, gli sfrenati riti pagani, celebrati in occasione della raccolta dell’uva, in onore del dio Bacco, che grazie al mosto infervorava gli animi ed annebbiava la vista.
Meta molto frequentata era la collina di Testaccio, un accumulo artificiale di frammenti di vasi e terra, alle cui pendici c’erano numerose grotte, che fungevano da cantine.

Qualcuno, pur di esserci, arrivava a piedi, ma chi aveva la possibilità si muoveva con la carettella, addobbata a festa, cavallo compreso.
Le donne, popolane o di piccola borghesia, o minenti, ponevano gran cura nell’adornarsi, spesso in maniera vistosa, ma anche l’uomo non disdegnava vestiti ed ornamenti sfarzosi e portava con sé uno strumento musicale, che serviva da base per la danza del saltarello, ballo tipico delle ottobrate romane.
Ma che festa era se non si mangiava? Rientravano nel menù maccaroni e gnocchi, ma anche trippa e abbacchio, il tutto innaffiato da un buon vinello.
Certo l’alcool dava i suoi effetti e il rientro in città era più chiassoso dell’andata.
Spesso la baldoria si tramutava in rissa, e ci scappava pure il morto.

Ovviamente non tutti andavano a Testaccio, altre zone fuori porta erano: Ponte Milvio, San Giovanni, Porta Pia, San Paolo, Monteverde, o Monte Mario, del resto la Roma ottocentesca era circondata da orti, vigne e zone a pascolo, che ben si prestavano alle scampagnate, subito fuori le mura aureliane.
Ma quando i soldi mancavano, o non si voleva ricorrere ai pegni, non rimaneva altro che rimanere in città e festeggiare in una delle ville romane generalmente chiuse al pubblico ed aperte per l’occasione con “magnanimità” dai rispettivi proprietari. Tra la fine del settecento e i primi dell’ottocento i principi Borghesi allestirono uno spazio adibito agli spettacoli: giostre, orchestre, alberi della cuccagna, spettacolo del periglioso innalzamento dei globi aerostatici, naturalmente a pagamento, esibizioni equestri, insomma c’era un via vai di gente a piedi e di carrozze, anche se mancavano bagordi e vino tipicamente baccanali, caratteristici della uscite fuori porta!


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