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Storia del Lungotevere


Vivere il Lungo Tevere nonostante inquinamento e traffico significa vivere nella storia stessa di Roma.

Abitare il Lungo Tevere significa vivere nell’inquinamento acustico ed atmosferico, legato al traffico che pesantemente affolla le strade, oppure patire dell’allergia provocata dai maestosi platani che affiancano i muraglioni, sebbene regalino frescura ai turisti che passeggiano per il centro.
Eppure c’è ancora chi ama vivere lungo questo fiume, perché significa partecipare alla storia stessa della città, in quanto il Tevere non scordiamo che esiste già prima di Roma, e ne ha influenzato la nascita legandosi al mito delle leggendarie origini dei fratelli Romolo e Remo, e già prima della nascita del primordiale villaggio assisteva al passaggio di rozzi pastori, che scendevano dall’Abruzzo con le loro greggi per la transumanza e nei pressi dell’isola tiberina cercavano il guado per oltrepassare il fiume ed arrivare fino al mare, dove si rifornivano di sale indispensabile per la loro produzione casearia.

ponti Roma

Nei primi secoli dalla fondazione fino al 312 a.C. anno in cui il censore Appio fece costruire il primo acquedotto, la sopravvivenza idrica della popolazione fu affidata all’approvvigionamento d’acqua prelevata direttamente dal Tevere, oltre che da sorgenti spontanee. E dopo il crollo dell’impero romano, con il conseguente abbandono degli acquedotti, il Tevere tornò ad offrire acqua potabile e forza motrice per i mulini che macinavano il grano presso le sue sponde. Il fiume proseguì ad assicurare i rifornimenti alimentari a Roma, con i battelli che scendevano dalla Sabina o con pesanti barconi che risalivano dalla costa aggiogati a torme di animali, per contrastare le acque tumultuose del Tevere; ed ancora nel Rinascimento le grandi opere di architettura si sono avvalse della possibilità di trasportare i materiali da costruzione utilizzando tale via d’acqua.
Purtroppo oggi, dopo la costruzione degli argini ottocenteschi, il Tevere scorre isolato e nascosto alla vista, molto in basso rispetto il piano stradale, lontano dalla vita frenetica di tutti i giorni.

E’ un tubo a cielo aperto, di scorrimento liquidi, inquinato e moribondo.
Solo cent’anni fa si lavavano i panni, si pescavano le anguille, ci si faceva il bagno lungo le sue sponde, si aveva insomma un rapporto ravvicinato di amore per la sua utilità, ma anche di odio a causa delle frequenti inondazioni, provocate dall’ingrossamento del fiume che sfogava l’immane portata idrica rigurgitando dalle fogne, allagando così i quartieri più bassi vicini alla riva. Il problema della tracimazione era vecchio come la città, essendo il Tevere un fiume a carattere torrentizio. La prima piena di cui si ha notizia risale al 241 a.C. e non ci fu imperatore romano che non studiò i modi per tentare di risolvere il problema, addirittura Giulio Cesare aveva trovato una soluzione davvero drastica: la deviazione dell’alveo del Tevere; progetto poi ripreso da Garibaldi, che venne apposta da Caprera, per risolvere la millenaria questione. Egli ipotizzò la realizzazione di un grande canale, che a nord di Roma prendesse le acque del Tevere e compiendo un arco ad est finisse con il ricongiungersi a valle di San Paolo, riducendo il tratto che attraversa Roma ad una sorta di rigagnolo.
Ma il fiume era l’anima stessa della Città Eterna, deviarne il corso significava svuotarne l’essenza stessa, ecco perché si è andati avanti per tanti secoli, senza riuscire a prendere nessuna decisione. Il Tevere però sapeva farsi perdonare in occasione delle feste, allorché i romani affollavano le sponde per assistere a gare, o per ammirare i fuochi multicolori di Castel Sant’Angelo, che si specchiavano sulle acque.

E si favoleggia di Agostino Chigi che, durante i conviti che si tenevano nei giardini della sua villa, la Farnesina, facesse gettare nell’antistante Tevere, a fine festa, il vasellame d’oro e d’argento utilizzato, salvo poi ripescarlo con delle reti.
Inoltre, secondo la leggenda, fra i tanti tesori che l’alveo del fiume dovrebbe custodire, ci sarebbe il prezioso candelabro aureo a sette luci, che l’imperatore Tito portò a Roma, come bottino di guerra dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme.
Certo le inondazioni delle piene del fiume causavano numerosi disastri, ancora oggi si possono trovare affisse le lapidi che ricordano il livello raggiunto dalle acque all’interno dei rioni. La stessa fontana della Barcaccia, a piazza di Spagna, ricorda una barca trascinata fino a quel punto da una delle tante piene del Tevere.
Dall’antichità al 1870 sono stati contati 49 allagamenti disastrosi; nella piena del 1598 morirono tremila persone; in quella del 1870 le acque sostarono in città cinque giorni, le vittime e i danni causati dal fiume, questa volta non interessarono solo lo Stato Pontificio, ma tutta l’Italia, poiché la città di Roma era stata annessa da poco al Nuovo Regno, in qualità di capitale. Il re Vittorio Emanuele III, accorso nella città dove sarebbe dovuto venire a vivere, decise che si dovevano adottare rimedi risolutivi.

Così il problema inondazioni, che si trascinava da sempre, fu risolto in appena cinque anni con l’approvazione del progetto dell’ingegnere Canevari, prevedendo la costruzione di alti muri (17 mt.) di sponda per tutto il tratto urbano, con un marciapiede su ambo i lati, a fondo scarpata, da utilizzare in tempo di magra, fissando a 100 metri l’alveo del fiume. Inoltre si proponeva l’eliminazione del ramo sinistro dell’isola tiberina! L’indignazione degli archeologi riuscì a salvare l’isola, ma non il porto di Ripetta, antico scalo fluviale, che nel 1704 aveva assunto quella sistemazione barocca, che anticipava l’aspetto architettonico della scalinata di Trinità dei Monti. Ci fu una lotta furiosa tra ingegneri idraulici da una parte ed archeologi dall’altra. Per fortuna si riuscì a bilanciare la spartizione della corrente tra i due rami del Tevere, salvando la storica configurazione topografica dell’isola. Comunque l’imbrigliamento del fiume è stato pagato a caro prezzo, con la demolizione di una fetta d’abitato e la distruzione del porto di Ripetta, per cui a nulla è valsa la ricostruzione del porto difronte all’edificio della Marina, che porta il nome di Scalo De Pinedo, rievocando l’ardito navigatore aereo che scese nel fiume con il suo idrovolante.
Il progetto Canevari prevedeva la pulizia dell’alveo dagli ingombri, come ad esempio i vecchi mulini, o parti superstiti di antichi ponti. I lavori iniziarono prontamente nell’anno 1876 , alla fine del ‘900 i muraglioni del centro erano terminati e nel 1926 fu affissa una lapide celebrativa a ricordo della conclusione dell’opera.

Rimaneva a rischio inondazione la bassa valle del Tevere, considerata zona di espansione delle acque in caso di piena torrentizia. Lo stesso dicasi per la zona tiburtina sottoposta allo straripamento dell’Aniene. Purtroppo oggigiorno si torna a parlare dei danni causati dalle piene del fiume in quelle zone a rischio, in cui sono sorte case abusive.
Certo per il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici non fu facile scegliere tra i vari progetti, perché comunque si andava a modificare l’aspetto tipologico del fiume e la sua secolare storia. La scelta del progetto Canevari, con la costruzione di alti muri di sponda, ha segnato la fine del rapporto diretto e quotidiano della popolazione con il fiume.

Quando la calura estiva era insopportabile il popolino, che certo non godeva del vantaggio della nobiltà romana di lasciare il palazzo del centro città per andare a rinfrescarsi nella villa fuori porta, trovava refrigerio nel Tevere; a valle di ponte Sisto su una sporgenza sabbiosa c’erano i “bagni della Renella”, da dove i romani si tuffavano, facendo disperare le autorità pontificie per la loro impudicizia. Durante il Cinquecento e il Seicento, gli editti papali così suonavano: “che non si vada a notare o a lavarsi nel fiume senza mutande… sotto pena agl’huomini di scudi cento et di tre tratti di corda, et alli ragazzi, oltre detta pena pecuniaria, d’esser bene staffilati“. E per evitare la promiscuità, la riva destra fu destinata alle donne, e quella sinistra fu adibita ai soli uomini. Ragion per cui verso la fine del Settecento cominciarono a nascere le prime cabine. Era il secolo in cui poeti, pittori ed aristocratici di tutta Europa non mancavano di soggiornare a Roma, e Goethe appuntava nel suo diario il 19 agosto 1787: “La sera prendo un bagno nel Tevere, in certi camerini comodi e sicuri; poi faccio una passeggiata a Trinità dei Monti e godo il fresco al chiaro di luna“. I galleggianti presero piede, e forse il più famoso era quello del Ciriola, sotto ponte Garibaldi, dove terminava la gara di nuoto estiva; l’ultima si tenne nel 1939, quando le acque del fiume erano ancora pulite, sebbene chiuse sotto le possenti sponde dei muraglioni. Nella zona nord sono sorti numerosi circoli sportivi, tra cui quelli canottieri, che ancora solcano le acque, da quando ai tempi di Pio XI, a causa della caratteristica maglia rossa, i canottieri Tevere Remo furono scambiati per Garibaldini e presi a fucilate dai soldati pontifici.

Con alti e bassi sopravvive la tradizione “fiumarola” dei romani, che vanno a mangiare sui barconi, o che scelgono di passare una piacevole serata nei punti di ritrovo lungo il Tevere, che tornano ogni estate a movimentare la vita dei larghi marciapiedi che costeggiano il fiume, in fondo ai muraglioni.
Negli anni novanta i barconi ripresero a navigare il Tevere, da ponte Marconi a ponte Duca d’Aosta, e fu una grande conquista per romani e turisti, finalmente dopo un periodo di oblio è ripresa la navigazione, pur consapevoli che il nostro fiume è un grande torrente e non è paragonabile né alla Senna, né al Tamigi; comunque regala suggestivi scorci, e piacevoli passeggiate sui marciapiedi attigui la riva, per turisti, abitanti del luogo e romani di ogni quartiere, a patto che migliori la salubrità delle acque, poichè, nonostante l’uso dei depuratori, rimane purtroppo un fiume inquinato, vago ricordo del biondo Tevere.


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