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Acque di Roma


Un’impareggiabile tecnica costruttiva e alta ingegneria idraulica: gli acquedotti romani

Per noi romani basta un semplice gesto: aprire il rubinetto e getti copiosi di acqua si riversano nelle nostre case e quasi sembra impossibile che ad altre latitudini ci sia chi patisce la sete ed ancor peggio che, nelle regioni meridionali della stessa nostra Italia, si debba soffrire la carenza di uno dei beni più preziosi per la sopravivenza e lo sviluppo. E’ interessante, quindi, per conoscere la situazione odierna, analizzare quella passata, che rappresenta la nostra tradizione.

acqua

Vivere nell’abbondanza dell’approvvigionamento idrico rientra nella cultura tramandataci dagli antichi, che si preoccuparono di dotare i centri abitati di molta più acqua di quella che potevano reperire in loco e ciò grazie alla costruzione degli acquedotti. Già al tempo dell’antica Roma ci si rendeva conto di quale mirabile impresa  fosse, al punto che Strabone diceva.”Gli acquedotti portano a Roma tanta acqua, che questa scorre a torrenti per la città” e Plinio il Vecchio aggiungeva:” Chi vorrà considerare con attenzione la quantità delle acque di uso pubblico per le terme, le piscine, le fontane, le case, i giardini suburbani, le ville; la distanza da cui l’acqua viene, i condotti che sono stati costruiti, i monti che sono stati perforati, le valli che sono state superate, dovrà riconoscere che nulla in tutto il mondo è mai esistito di più meraviglioso” e Dionigi di Alicarnasso ammetteva: ”Mi sembra che la grandezza dell’impero romano si rilevi mirabilmente in tre cose: gli acquedotti, le strade e le fognature” portati fino ai confini del conquistato.

In realtà i Romani per i primi quattro secoli e mezzo dalla fondazione si erano dovuti accontentare di prelevare l’acqua dal Tevere, dalle sorgenti, che formavano ai piedi dei colli tufacei veri e propri torrenti, e poi dai pozzi e dall’impluvio delle case, che raccoglieva l’acqua piovana per raccoglierla in una cisterna sotterranea (nulla andava perduto!). Insomma la storia degli acquedotti comincia nell’anno 441 ab urbe condita, ossia nel 312 a.C. quando il censore Appio Claudio (lo stesso che fece costruire la via Appia) portò l’acqua nell’Urbe, secondo quanto attesta lo scrittore Tito Livio.

ASPETTI TECNICI
Innanzi tutto i Romani, ormai padroni del territorio circostante la città, ricco di monti e di acqua, impostarono la ricerca per accaparrarsi le migliori sorgenti: l’acqua doveva essere gradevole al gusto, nonché abbondante e regolare nel flusso; a questo punto intervenivano gli agrimensori (oggi geometri) per studiare il tracciato più idoneo a far giungere l’acqua con la dovuta pendenza,  dal punto di partenza a quello di arrivo, utilizzando strumenti vari come la diottra, la livella, il corobate e la groma. L’inizio di un acquedotto (caput aquae) era diverso nel caso si trattasse di sorgenti di superficie o presa diretta da un fiume, oppure consisteva in vene sotterranee. Nel primo caso si costruiva, tramite uno sbarramento artificiale, un bacino di raccolta in muratura, reso impermeabile da un rivestimento in cocciopesto. Nel secondo caso si ricorreva ad un sistema articolato di pozzi, scavati perpendicolarmente alla vena d’acqua, che veniva imbrigliata e poi convogliata.

Una volta raccolta, l’acqua passava in una o più vasche di decantazione (piscinae limariae), dove si rallentava la discesa  per permettere che si depositassero le impurità, di cui avevano già scoperto la pericolosità per il fisico umano, tanto che tali vasche erano predisposte anche al termine dell’acquedotto, per consentire un ulteriore purificazione, prima di essere immessa nelle tubazioni cittadine.
Dopodiché iniziava il cammino nel canale, o speco (specus), uno scorrimento “a pelo libero” in condotti in muratura e in costante pendenza, ma senza farle acquistare eccessiva velocità. Noi sappiamo che già i Greci e i Cretesi avevano costruito condutture a pressione (tubazioni di pietra, saldate con un impasto di bitume), ma  i Romani invece di ricorrere al sifone, inadatto ai tempi di allora per la scarsa resistenza delle tubazioni alle forti pressioni delle condotte forzate, preferirono il semplice principio della pendenza, riuscendo così a convogliare grandissime quantità d’acqua senza dover ricorrere a tubi di grande sezione, necessaria per resistere alle forti pressioni.

Il percorso dello speco era per quanto possibile sotterraneo, quando invece doveva attraversare valli o corsi d’acqua si poggiava su quelle arcuazioni che caratterizzano gli acquedotti romani fino ai confini dell’impero. La livellazione del condotto si effettuava utilizzando una livella ad acqua (libra aquaria). Il percorso, sia sotterraneo che a cielo aperto, era segnalato su entrambi i lati da cippi lapidei numerati, posti alla distanza di circa 70 metri uno dall’altro, e servivano ad indicare la presenza del condotto, tanto più se sotterraneo e rappresentavano una fascia pubblica di rispetto, che non poteva essere valicata. Tale terreno era stato acquistato dallo Stato prima ancora di iniziare i lavori, ma siccome, ad opera terminata, veniva rioccupato dalla popolazione locale, il Senato fu costretto a punire i trasgressori con una multa, di cui la metà veniva elargita all’accusatore stesso!

Astuzia finalizzata per sopperire al costo della sorveglianza e alla corruzione degli acquaioli, che non segnalavano il riuso del terreno o la sottrazione dell’acqua, ovviamente dietro lauto compenso. Il percorso era inoltre affiancato da strade di servizio, spesso lastricate, nate per facilitare le opere di controllo e manutenzione. Già in fase di costruzione era stato predisposto il sistema  di accesso allo speco, che poteva essere di due tipi: se l’acquedotto era sotterraneo l’apertura era un tombino in muratura, fornito di scaletta ed aperto in verticale sul canale, se invece era sopraelevato, l’ingresso era assicurato da frequenti portelli. Infine, in corrispondenza delle valli venivano predisposti degli sfiatatoi, per interrompere o diminuire il flusso dell’acqua, scaricandola al di fuori. La pulizia dello speco era frequente negli acquedotti che prelevavano acqua dall’Aniene, le cui acque ricche di calcio formavano concrezioni, che se non fossero state rimosse costantemente avrebbero finito con l’occludere il condotto. Le incrostazioni calcaree che venivano rimosse erano in genere lasciate sul terreno, tanto da costituire elemento di rintracciabilità del percorso sotterraneo. E quando l’acqua finalmente arrivava a Roma per servire facilmente tutti i quartieri della città doveva arrivare in una zona piuttosto elevata (perlopiù Porta Maggiore).

Il percorso finiva in un castello terminale, una torre, contenente una o più camere di decantazione, seguiva la vasca nella quale l’acqua veniva ripartita e immessa nelle condutture urbane di adduzione alle utenze, per mezzo di bocche costituite da tubi di bronzo (calices) a forma di calice, costruiti in tale materiale indeformabile per impedire allargamenti abusivi del diametro (che ci fa capire quanto fosse viva l’abitudine di frodare lo Stato), erano di dimensione diversa ed applicati orizzontalmente rispetto alla vasca, in direzione del flusso idrico. All’interno della città venivano predisposti castelli secondari per ottenere un’ulteriore ripartizione del flusso, o in caso di diminuzione della domanda o di cessazione fungevano da serbatoi di accumulo, tuttavia durante la notte l’acqua superflua si disperdeva o finiva nelle fogne. Non mancano castelli che precedono il principale, per rifornire le grandi ville suburbane, fuori della città. In epoca di spettacolarità il castello terminale assunse l’aspetto di una fontana monumentale, purtroppo l’unica che ci è pervenuta è quella che si trova sul punto più alto dell’Esquilino, all’interno di piazza Vittorio, privata delle lastre di marmo e delle statue che l’abbellivano e che ora si trovano lungo il davanzale del Campidoglio, ma soprattutto lasciata senza quel tripudio d’acqua, che la rendeva viva. Il trasporto avveniva mediante tubazioni di piombo, materiale adatto alle variazioni del tracciato, come le curve, le fistulae plumbae aquariae portavano la bollatura che indicava il nome dell’imperatore, del procuratore addetto ai controlli, del concessionario dei lavori di manutenzione, della ditta che aveva costruito l’acquedotto  o posto le tubazioni, infine la portata d’acqua (c’è da imparare dagli antichi!).
L’unità di misura per calcolare la portata era la quinaria, corrispondente a circa mezzo litro d’acqua al secondo, e la progressiva diminuzione di portata dipendeva, allora come oggi, dalle perdite e dalle derivazioni abusive.

AMMINISTRAZIONE delle ACQUE
La considerazione del valore dell’acqua come bene primario, fa comprendere quale importanza avesse la cura aquarum. La realizzazione prevedeva la pratica degli appalti (locationes), che legava a particolari obblighi gli impresari (redemptores) e richiedeva, alla fine dei lavori, il collaudo (probatio), tanto che possiamo dire che non è cambiato nulla. Il curatore delle acque era collocato ai livelli più alti della carriera pubblica ed aveva alle sue dipendenze numeroso personale tecnico, amministrativo ed esecutivo e molti schiavi usati come manodopera: ai 260 di Augusto, si aggiunsero i 460 di Claudio. E’ interessante notare che durante la repubblica l’erogazione dell’acqua aveva perlopiù carattere pubblico, solo quella che avanzava poteva essere data in concessione, a pagamento, alle lavanderie, alle concerie, alle terme private. Mentre in età imperiale aumentò l’uso privato e si aggiunse quello particolare dell’imperatore: l’acqua insomma poteva essere concessa a titolo gratuito, ma bisognava farne domanda all’imperatore, che la accordava per sua magnanimità (per beneficium Caesaris, anche qui è cambiato ben poco!) solitamente a persone importanti, a titolo personale, per cui l’erogazione cessava con la morte del beneficiario, salvo rinnovo, su petizione dell’erede, ma se si corrompeva l’acquaiolo, si poteva proseguire a godere di tale beneficio anche senza richiesta.

Particolare attenzione venne posta per evitare sprechi o manomissione dei condotti, sia da parte dei privati, in genere possessori di terreni agricoli, che la intercettavano lungo il percorso (ancora avviene ai giorni nostri sia con l’acqua, che con il gas metano!), sia da parte del personale, i fontanieri, che attivavano derivazioni illecite, dietro lauto compenso. Siamo a conoscenza di tutto ciò grazie a Sestio Giulio Frontino, che nominato nel 97 d.C. Curator Aquarum, scrisse un trattato sulla storia degli acquedotti e sulla loro gestione. Amministratore ideale, lavorò alacremente per combattere gli attingimenti abusivi o illeciti perpretati dai fontanieri, curò la manutenzione degli acquedotti dando i lavori più impegnativi in appalto, rifornendo i quartieri di più acquedotti, onde garantire il rifornimento in caso di sospensione di un acquedotto per motivi di restauro.

GLI ACQUEDOTTI
L’acqua Appia, prese il nome del magistrato che l’aveva fatta condurre con un percorso quasi tutto sotterraneo, captando le sorgenti a più di dieci chilometri da Roma. Ma già nel secolo successivo, il crescente afflusso di immigrati (ci sono sempre stati!) con il conseguente aumento della domanda, rese necessaria la costruzione di un altro acquedotto.

L’acqua dell’Anio Vetus (272–269 a.C.), cioè Aniene Vecchio, fu così chiamata per distinguerla dall’Aniene Nuovo, che dopo tre secoli affiancò la prima condotta, presa nell’alta valle dell’Aniene, il più importante serbatoio d’acqua per Roma, che deve la sua fortuna non a un solo fiume, ma a due: il Tevere e l’Aniene. Tuttavia, meno di un secolo dopo, il rifornimento diventava nuovamente insufficiente, al punto di dover restringere l’erogazione a privati, divenendo attivi nella disattivazione degli allacciamenti abusivi, che venivano effettuati (allora come oggi !), per carenza di materia prima. Serviva altra acqua, ma Marco Licinio Crasso non concesse il passaggio delle condutture nei terreni di sua proprietà (per lui non valse il concetto di esproprio applicato per altri!) così si dovettero aspettare trentacinque anni, fino a quando il senato diede l’incarico a Quinto Marcio di restaurare gli acquedotti dell’Appia e dell’Aniene e di costruirne uno nuovo.

L’acqua Marcia (144-130 a.C.) proveniva anch’essa dall’alta valle dell’Aniene e per giungere fino al Campidoglio necessitò della costruzione di quelle arcate monumentali, che divennero simbolo della potenza edilizia romana in tutto il mondo. L’acqua Marcia era così abbondante e buona, che fu riportata a Roma durante il pontificato di Pio IX e l’11 settembre 1870 a pochi giorni dall’ingresso delle truppe italiane nello Stato Pontificio si inaugurò solennemente il rinato acquedotto.

L’acqua Tepula, cioè tiepida, fu portata nel 125 a.C., di portata modesta era stata captata sui Colli Albani e rappresentò il quarto ed ultimo acquedotto costruito in età repubblicana.
Passò quasi un secolo, e le guerre civili distolsero gli animi dalle opere pubbliche, fino a che prese il potere l’imperatore Augusto, dando all’umanità di allora un periodo di pace e alla città di Roma tre nuovi acquedotti.

L’acqua Giulia fu portata nel 33 a.C. da Agrippa (genero di Augusto, lo stesso che aveva fatto erigere il Pantheon) e fu unita alla Tepula.

L’acqua Vergine rappresentò il rifornimento idrico delle grandi terme realizzate nel Campo Marzio e fu portata nel 19 a.C. sempre da Agrippa. E’ l’acqua che tutt’ora sgorga a fontana di Trevi.

L’acqua Alsietina, (2 d.C.) fu prelevata dal lago Martignano, presso Bracciano, e non essendo potabile andò ad alimentare il bacino artificiale, che lo stesso imperatore Augusto aveva fatto realizzare a Trastevere, per gli spettacoli di battaglie navali.
Alla morte di Augusto Roma era divenuta una metropoli: i maggiori monumenti erano stati costruiti con marmi pregiati provenienti dai confini dell’impero, il sistema fognario era più efficiente, e sette acquedotti riuscivano a soddisfare le necessità pubbliche e private. Ma solo nel 38 d.C. Caligola avviò e poi Claudio terminò due nuovi acquedotti, ricorrendo di nuovo alle acque dell’Aniene, che scendevano  abbondanti dai monti Simbruini.

L’acqua Claudia, prese il nome dall’imperatore ed era prelevata nella valle dell’Aniene e gli archi sono celebri in tutto il mondo, per aver caratterizzato la campagna romana. Successivamente, all’interno della città, Nerone la prelevò per alimentare il suggestivo ninfeo, che faceva parte della domus aurea, la casa d’oro di Nerone.
L’acqua dell’Aniene Nuovo (Anio Novus) proveniva direttamente dal fiume, si chiamò così per distinguersi dall’acquedotto più vecchio, che prese il nome di Anio Vetus.
Seguì un periodo in cui gli imperatori preferirono spendere in restauro del già esistente, fino a che Traiano nell’ambito degli investimenti promossi per lo sviluppo di Roma fece costruire il decimo acquedotto.

L’acqua Traiana, (109 d.C.) prelevata dalle sogenti tra il lago di Bracciano e i monti Sabatini, serviva le terme sul Colle Oppio e l’approvvigionamento diretto di Trastevere, che fino ad allora era privo di risorse idriche apportate da acquedotto.
Manutenzioni e restauri impegnarono i successivi imperatori, mentre Caracalla fece incrementare la portata della Marcia con la captazione di nuove sorgenti, per alimentare le sue gigantesche terme, fino a che pochi anni dopo Alessandro Severo decise di far costruire un altro acquedotto.
L’acqua Alessandrina arrivò nel 226 d.C. e fu l’ultima realizzazione monumentale che possederà Roma.
Secondo i Cataloghi Regionari gli acquedotti alimentavano 11 terme grandi e circa 900 minori, 15 fontane monumentali, 2 naumachie, 3 laghi artificiali, circa 1300 fontane, che nelle strade e nei cortili dei grandi caseggiati, le insulae, servivono alle necessità della popolazione che non aveva acqua in casa, ricordiamo tuttavia che poteva godere per le abluzioni quotidiane di un’efficiente rete di terme, accessibili a prezzi superpopolari.

Ma tutto ha fine, l’impero crollò e durante l’assedio di Roma, da parte dei Goti nel 537, gli acquedotti furono messi fuori uso, per impedire che i Barbari se ne servissero come via di penetrazione in città. Rimessi parzialmente in funzione, la crisi si fece sentire a partire dal IX sec. Stiamo in pieno Medioevo, e la popolazione ridottasi di numero si assiepò lungo le rive del Tevere, dove tornò ad attingere l’acqua dal fiume, oltre che dalle sorgenti ai piedi dei colli e dai pozzi; si ritornò praticamente indietro, alla vita dei primi secoli ab urbe condita, e pensare che nell’epoca di massimo splendore gli acquedotti portavano in città 1 milione di metri cubi di acqua al giorno!


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