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Storia degli acquedotti romani


Gli acquedotti di Roma antica

Abbiamo già visto come Roma fosse famosa per l’abbondanza d’acqua di cui disponeva e che utilizzava per fontane, ninfei e terme, tanto che fu soprannominata regina aquarum, il che fu possibile grazie alla natura idrogeologica del territorio collinare e montano intorno alla città e all’abilità che i Romani avevano acquisito in ingegneria idraulica, applicando gli insegnamenti degli Etruschi; sicché durante il loro governo arrivarono a costruire ben undici acquedotti, che si appellarono con il nome dell’acqua captata o di chi la fece portare.

L’acquedotto Appio, prese il nome del magistrato che aveva fatto condurre l’acqua nel 312 a.C. con un percorso quasi tutto sotterraneo, intercettando le sorgenti a più di dieci chilometri da Roma. Ma già nel secolo successivo, il crescente afflusso di immigrati (ci sono sempre stati!) con il conseguente aumento della domanda, rese necessaria la costruzione di un altro acquedotto.

L’acquedotto dell’Anio Vetus (272-269 a.C.), cioè Aniene Vecchio, fu così chiamato per distinguerlo dall’Aniene Nuovo, che dopo tre secoli affiancò la prima condotta, lunga più di 60 chilometri, la cui acqua era stata presa nell’alta valle dell’Aniene, il più importante serbatoio idrico di Roma, città che deve la sua fortuna non a un solo fiume, ma a due: il Tevere e l’Aniene. Tuttavia, meno di un secolo dopo, il rifornimento diventava nuovamente insufficiente, al punto di dover limitare l’erogazione ai privati, divenendo attivi nella disattivazione degli allacciamenti abusivi, che venivano effettuati (allora come oggi !), per carenza di materia prima o per volontà di frodare lo Stato. Serviva altra acqua, ma Marco Licinio Crasso non concesse il passaggio delle condutture nei terreni di sua proprietà (per lui non valse il concetto di esproprio applicato per tutti coloro ai quali veniva confiscata la terra per far passare le condutture) così si dovettero aspettare trentacinque anni, fino a quando il senato diede l’incarico a Quinto Marcio di restaurare gli acquedotti dell’Appia e dell’Aniene e di costruirne uno nuovo.

L’acquedotto Marcio (144-130 a.C.) proveniva  dall’alta valle dell’Aniene e per giungere fino al Campidoglio necessitò della costruzione di quelle arcate monumentali, che divennero simbolo della potenza edilizia romana in tutto il mondo. Si trattò di eseguire un’opera grandiosa, infatti l’acquedotto era lungo più di 90 chilometri, di cui gran parte sotterraneo. L’acqua Marcia era così abbondante e buona, che fu riportata a Roma durante il pontificato di Pio IX.

L’acquedotto Tepulo, cioè acqua tiepida, fu portata nel 125 a.C., di portata modesta era stata captata sui Colli Albani e rappresentò il quarto ed ultimo acquedotto costruito in età repubblicana. Lungo 18 chilometri, sfruttò l’appoggio alle strutture dell’acquedotto Marcio.
Passò quasi un secolo, e le guerre civili distolsero gli animi dalle opere pubbliche, fino a che prese il potere l’imperatore Augusto, dando all’umanità di allora un periodo di pace e alla città di Roma tre nuovi acquedotti.

L’acquedotto Giulio prese il nome dalla gens Iulia in onore di Augusto. L’acqua imbrigliata da una sorgente nel territorio dei Castelli Romani, fu portata, con un percorso lungo 23 chilometri, nell’anno 33 a.C. da Agrippa (genero dell’imperatore, lo stesso che aveva fatto erigere il Pantheon) e fu unita alla Tepula.

L’acquedotto Vergine rappresentò il rifornimento idrico delle grandi terme realizzate nel Campo Marzio e fu portato nel 19 a.C. sempre da Agrippa. Ma come spiegarci tale nome? Secondo Frontino è dedicato alla fanciulla (virgo) che avrebbe indicato ai soldati assetati le sorgenti; secondo altri il nome deriverebbe da virga, cioè la verga usata da un rabdomante per la ricerca del liquido nel sottosuolo, infine pare che la purezza, la verginità, delle acque prive di cloro le abbiano dato il nome.E’ l’acqua che tutt’ora sgorga a fontana di Trevi.

L’acquedotto Alsietino, (2 d.C.) deve il nome dal lago Martignano (lacus Alsietinus) presso Bracciano, ma l’acqua non essendo potabile andò ad alimentare il bacino artificiale che lo stesso imperatore Augusto aveva fatto realizzare a Trastevere, per gli spettacoli di battaglie navali. Il percorso lungo 33 chilometri, era in gran parte sotterraneo.
Alla morte di Augusto Roma era divenuta una metropoli, grazie ad un lungo periodo di pace e alla volontà dell’imperatore, coadiuvato da Agrippa, di porre mano al riordinamento urbanistico, edilizio ed estetico della città: i maggiori monumenti erano stati costruiti con marmi pregiati provenienti dai confini dell’impero, il sistema fognario era più efficiente, e sette acquedotti riuscivano a soddisfare le necessità pubbliche e private. Ma solo nel 38 d.C. Caligola avviò e poi Claudio terminò due nuovi acquedotti, ricorrendo ancora alle acque dell’Aniene, che scendevano  abbondanti dai monti Simbruini.

L’acquedotto Claudio, prese il nome dall’imperatore e l’acqua era prelevata nella valle dell’Aniene. Lungo 68 chilometri, è il più importante degli acquedotti antichi, i cui archi sono celebri in tutto il mondo, per aver caratterizzato la campagna romana, immortalata da artisti italiani e stranieri.  Successivamente, all’interno della città, Nerone la prelevò per alimentare il suggestivo ninfeo, che faceva parte della domus aurea, la casa d’oro di Nerone, mentre papa Sisto V lo riutilizzò per la costruzione dell’acquedotto Felice.

L’acquedotto dell’Aniene Nuovo (Anio Novus) prendeva le acque direttamente dal fiume, si chiamò così per distinguersi da quello  più vecchio, che si chiamò Anio Vetus. Lungo circa 87 chilometri, nell’ultimo tratto si appoggiava alle arcate del Claudio, diventando così anche il più alto.
Seguì un periodo in cui gli imperatori preferirono spendere in restauro del già esistente, fino a che Traiano nell’ambito degli investimenti promossi per lo sviluppo di Roma fece costruire il decimo acquedotto.

L’acquedotto Traiano, (109 d.C.) prelevava dalle sorgenti site tra il lago di Bracciano e i monti Sabatini, serviva le terme sul Colle Oppio e approvvigionava Trastevere, che fino ad allora era rimasto privo di risorse idriche apportate da acquedotto.Venne ripristinato successivamente con papa Paolo.
Manutenzioni e restauri impegnarono i successivi imperatori, mentre Caracalla fece incrementare la portata della Marcia con la captazione di nuove sorgenti, per alimentare le sue gigantesche terme, fino a che pochi anni dopo Alessandro Severo decise di far costruire un altro acquedotto.

L’acquedotto Alessandrino prese il nome dall’imperatore Severo Alessandro. Lungo 22 chilometri, fu costruito nel 226 d.C. e fu l’ultima realizzazione monumentale che possederà Roma.
Dicevamo nel precedente articolo che nel 537, durante l’assedio di Roma da parte dei Goti, gli acquedotti furono messi fuori uso: i Goti li distrussero per privare la città dell’abbondante dell’acqua di cui godeva e i Romani li tagliarono per impedire che i Barbari se ne servissero per penetrare a Roma. E quindi si tornò ad attingere acqua dal Tevere, dai pozzi e dalle sorgenti che ai piedi dei colli facevano zampillare acqua minerale dalle molteplici proprietà curative, di cui si parlerà in un altro contesto.
Passeranno così mille anni, infatti bisognerà arrivare alla Roma pontificia per tornare a far scorrere l’acqua negli acquedotti.

Gli acquedotti nella Roma Pontificia

La popolazione dovette aspettare fino al 1500, per avere nuovamente in funzione un acquedotto che, come i successivi, in linea con l’antica tradizione romana, terminavano con  la costruzione di un monumentale apparato scenico: la mostra dell’acqua. Come dicevamo nulla è rimasto delle spettacolari scenografie romane (eccetto i ruderi di piazza Vittorio),  mentre ancora è possibile ammirare le fontane di facciata della Roma Pontificia.

L’acquedotto nuovo dell’acqua Vergine fu costruito nel 1453, sotto papa Niccolò V, riutilizzando parte degli impianti di quello antico, per terminare in una modesta fonte detta poi Trevi. Nel settecento, girata sul lato di palazzo Poli che da sulla piazza omonima, è stata sostituita dalla monumentale fontana che tutti conosciamo, incredibile risultato dato dal connubio tra il rigore classico della facciata e l’allegra scenografia barocca della base, che gli ha procurato fama in tutto il mondo.

Le acque furono riportate copiosamente a Roma con Sisto V, al secolo Felice Peretti, papa e  grande urbanista: rinnovò Roma con l’apertura di grandi arterie che collegavano tra loro le basiliche, fece innalzare quattro obelischi sepolti nella terra della dimenticanza e proseguì l’opera del suo predecessore, portando a termine l’acquedotto che da lui prese il nome di Felice.

L’acquedotto Felice fu completato nel 1587 e realizzato da Domenico Fontana, che riutilizzò in parte l’antico acquedotto Claudio e presso Porta Furba è possibile vedere ancora le arcate dei due acquedotti. Alimentava l’Esquilino, il Quirinale e il Viminale.
A Porta Furba, mentre l’arco risale al pontificato di Sisto V nel 1585 ed è stato realizzato per sovrapassare la Tuscolana con l’acquedotto Felice,  la fontana limitrofa è postuma ed è stata costruita nel 1733. Composta da un grande mascherone alato che versa acqua dentro una conchiglia, sta a rappresentare la volontà papale di dare acqua al popolo con un’opera monumentale in una zona di Roma allora periferica, essendo fuori dalle mura aureliane.
L’acquedotto Felice terminava vicino Termini, nella piazza San Bernardo, vicino largo S. Susanna, con la costruzione della monumentale fontana-mostra del Mosè, opera ideata dal Fontana, sotto il grande attico con iscrizione si aprono tre nicchioni, con rappresentazioni bibliche ai lati e al centro la colossale statua di Mosè. L’acqua sgorga alla base, nelle vasche ornate da quattro leoni, copie degli originali egizi, trasportati nei musei vaticani.

L’acquedotto Paolo, lungo 64 chilometri, fu fatto costruire da Paolo V e realizzato nel 1610-14 da Giovanni Fontana e Carlo Maderno, riutilizzando in parte le canalizzazioni dell’acquedotto romano voluto dall’imperatore Traiano. Alimentava i rioni di Borgo, Trastevere ed il Vaticano e  dove terminava sono state costruite due fontane monumentali: una alle falde del Gianicolo e l’altra presso ponte Sisto. Successivamente con l’unione di altre acque non potabili finì per essere usato solo per alimentare le fontane ed irrigare i giardini.

La mostra dell’acqua Paola al Gianicolo, recentemente restaurata, è più conosciuta dai romani come il “Fontanone del Gianicolo”. Il complesso monumentale scenografico fu voluto da Paolo V Borghese, i cui emblemi, il drago e l’aquila, sono scolpiti in più punti. La peculiarità del monumento sta nel riuso dei marmi antichi, prelevati da contesti archeologici diversi, malcostume tipico della fase edilizia rinascimentale. I marmi bianchi e policromi provengono dal Foro Romano, da quello di Nerva e dal tempio di Minerva. Marmi di Carrara, Pentelico, Pavonazzetto, Proconnesio, Bigio antico, Cipollino e Travertino. Mentre le colonne in granito rosso e grigio provengono dalla basilica costantiniana di San Pietro, che allora si stava demolendo per costruire la nuova.

Il Fontanone di ponte Sisto, così chiamato per la vicinanza al ponte, ora si trova a piazza Trilussa, mentre in origine era dall’altra parte del ponte e quando nel 1878 fu decisa la costruzione dei muraglioni per arginare il Tevere, la fontana venne smontata e i pezzi finirono nei magazzini comunali. Dopo un ventennio tornarono alla luce e si decise di ricostruirla nell’attuale sede, ma gran parte del materiale era andato distrutto o perso, sicché fu riprodotto in copia, aggiungendo anche 15 gradini. La fontana fu costruita nel 1613 come mostra dell’acqua Paola e tuttora svolge la duplice funzione monumentale e funzionale, fornendo materia prima ai senza tetto che in tale piazza sono accasati e che alla fonte vengono a lavare piatti o indumenti.

Acquedotto Pio
E’ l’ultimo acquedotto costruito nella Roma Papale, voluto da Pio IX, che volle ripristinare l’antico acquedotto romano Marcio. Si inaugurò solennemente  l’11 settembre 1870 a pochi giorni dall’ingresso delle truppe italiane nello Stato Pontificio. E’ stato gestito fino al 1964 da una società privata , in base all’originaria concessione pontificia.

A piazza della Repubblica, un tempo dell’Esedra, la semplice mostra dell’acqua Pia, inaugurata da Pio IX nel 1870, fu sostituita dalla monumentale fontana delle Naiadi, di Mario Rutelli  ( nonno dell’attuale Rutelli),  durante la sistemazione a fine ‘800 della piazza, per presentare un biglietto da visita importante a chi arrivava a Roma dalla limitrofa stazione Termini.

Gli acquedotti di Roma Capitale

E’ il 1870 e Roma secondo il desiderio di tutti diviene capitale del Regno d’Italia. In città si insediò la monarchia sabauda con tutto il suo seguito, compresi gli urbanisti nordici, che dettero un’impronta architettonica piemontese a molte zone di Roma. Ma la città pur aumentando nel numero di abitanti mantenne lo stesso approvvigionamento idrico della Roma pontificia, assicurato dagli acquedotti: Vergine,  Felice (che riutilizzò l’acquedotto dell’imperatore Claudio) Paolo (che ripristinò quello di Traiano) e Pio ( che recuperò il Marcio), poiché si reputò più importante e necessario effettuare la grande ed impegnativa opera pubblica dei muraglioni con cui si arginò il Tevere, evitando le periodiche, dannose e insalubri inondazioni. Arriviamo così al ‘900, nel periodo che va dagli anni ’30 ai ’40, allorché nell’ambito dei superbi progetti di sviluppo urbanistico di Roma Capitale si tenne conto della necessità di ricorrere a nuove risorse idriche.

Tra il 1930 e il 1937  l’Acquedotto pontificio dell’Acqua Vergine (che alimenta la fontana di Trevi, delle Tartarughe, del Facchino, di piazza Colonna, di piazza della Rotonda, della Barcaccia a piazza di Spagna e le fontane di piazza Navona) fu affiancato da un terzo nuovo acquedotto (il primo, romano, dicevamo nel precedente articolo fu costruito da Agrippa nel 19 a.C.) capace di addurre a Roma acqua purissima, sgorgante dalle sorgenti di Salone (lungo la via Collatina fuori dal Grande Raccordo Anulare) a una quota superiore rispetto all’antico acquedotto e quindi in grado di servire finalmente anche i piani più alti degli edifici.

Purtroppo nel 1961 a causa di infiltrazione di acque superficiali inquinate il vecchio acquedotto è stato dichiarato non potabile e di conseguenza è stato destinato solamente all’alimentazione delle fontane e dei giardini. Attualmente le sorgenti del Salone, che alimentano il nuovo acquedotto dell’Acqua Vergine, sono costituite da quattro polle che scaturiscono da fessurazioni di roccia vulcanica e forniscono acqua pregiata per scarsa durezza e per caratteristiche oligominerali. Dal 1978 è stata sfruttata meglio la sorgente, realizzando nelle vicinanze dell’impianto di sollevamento anche un serbatoio di accumulo, che si riempie nelle ore notturne per cedere acqua nelle ore di punta dei consumi, niente di nuovo, visto che è stata un’accortezza già usata dagli antichi romani!

Ma la popolazione aumentava, la povertà e la miseria contadina delle regioni limitrofe e del sud spinsero tanta gente “a far fortuna nella capitale”, beneficiando della bonifica delle terre circostanti, della nascente industria e dell’aumento del lavoro nel terziario. Dunque serviva acqua e nel 1937 si dette inizio alla prima fase di realizzazione di un grandioso acquedotto: il Peschiera. La sorgente situata a 7 Km da Cittaducale, in provincia di Rieti, è una grande caverna di origine carsica, di circa 20 m. di diametro, con acqua che sgorga perennemente, alla quale va aggiunta una rete di cunicoli per l’ulteriore captazione delle acque di falda all’interno del monte. Il percorso è lungo 90 Km. di cui 78 in galleria e l’acqua impiega 24 ore per arrivare fino a Roma. Il primo tratto di circa 26 Km., realizzato in galleria, termina nella centrale idroelettrica di Salisano, inaugurata nel 1940. L’acqua, infatti, in questo primo tratto viene usata per produrre energia elettrica, sfruttando il salto di 240 m. dopodiché viene diretta verso Roma.

Nella centrale di Salisano confluiscono anche le acque dell’Acquedotto Capore, utilizzate anch’esse per produrre energia elettrica con un salto di 80 m. Le sorgenti Capore scaturiscono in un tratto di fondo valle del fiume Farfa, nel comune di Frasso Sabino.
Da Salisano parte il tronco inferiore del Peschiera-Capore, che si dirama in due parti che corrono lungo il Tevere: il tronco destro e quello sinistro. Il destro è stato completato nel 1957, è lungo 59 Km. ed alcuni tratti sono stati realizzati a pressione, tecnica poco efficente al tempo dei romani, che preferirono ricorrere alla lenta pendenza e ad arcate monumentali per assicurare una giusta discesa dell’acqua. Inoltre è stato realizzato un ponte-canale per l’attraversamento del fiume. L’acquedotto ha termine nella vasca di carico di Ottavia.

Il tronco sinistro è lungo 33Km., di cui 28 in galleria, fino alla vasca di carico di Collelungo, dove le acque proseguono a pressione fino allo smistamento di Monte Carnale, da cui partono due adduttrici, una per il centro idrico terminale di Cecchina e l’altra per quello di Torre Nova. In linea con la tradizione anche il Peschiera termina con una fontana di mostra dell’acquedotto, realizzata nel 1949 a piazzale degli Eroi.
Alla fine del secondo conflitto mondiale, la città cominciò a crescere a macchia d’olio, richiamando immigrati da tutta Italia e i palazzi sorsero anche fuori dalle mura aureliane, nacquero così nuovi quartieri più o meno dotati di progetto urbanistico, per non parlare di tutte quelle abitazioni abusive che colmarono la distanza tra le borgate e la città.
Sicché per avere una riserva di acqua potabile per le situazioni di emergenza siamo arrivati a dover prelevare acqua perfino dal lago di Bracciano! L’asportazione avviene sul fondo del lago a una profondità di 55 metri, poi l’acqua viene portata all’impianto di potabilizzazione, che è stato recentemente ampliato ed è predisposto per future necessità di ulteriori tre linee.

Visto che dalla pendenza dei romani siamo passati là dove occorre alla pressione, è interessante sapere come sono le moderne condotte: ovviamente sono state realizzate in cemento armato, contenenti un rullo di metallo e dotate di una speciale chiusura in gomma, incapsulata all’interno di un apposito alloggiamento con imballo in metallo.

Roma detiene un primato invidiabile rispetto ad altre metropoli in tutto il mondo, sia per la quantità, che per la qualità dell’acqua potabile che arriva in città e che proviene da 9 fonti di approvvigionamento, di cui 5 sono grandi sorgenti montane: Acqua Marcia (la stessa dei Romani e riportata da papa Pio) Acquoria (presso Tivoli) Salone (Acqua Vergine) Peschiera e Capore. Le sorgenti si trovano a circa 150 Km. dalla città in direzione nord-est, infatti si è scelto ancora oggi, come un tempo,  coprire grandi distanze purché di avere acqua pura ed incontaminata, con un getto costante durante l’arco dell’anno. Bisogna aggiungere alle sorgenti: 3 campi pozzo (Pantano Borghese, Finocchio e Torre Angela) ed infine il lago di Bracciano.

Attraverso 4 acquedotti ed un sistema di condotte a pressione l’acqua viene distribuita a circa 3.000.000 di abitanti. I centri idrici principali sono 35 e le condotte coprono una superficie di oltre 6000 Km, trasportando più di 1,5 milioni di mq al giorno. Acqua pura, monitorata dalla Acea (Azienda Comunale Elettricità ed Acque) che cura la gestione del servizio idrico attraverso indagini continue, con strumentazioni dislocate alla captazione e lungo la rete di distribuzione, che vengono effettuate nel nuovo laboratorio di Grottarossa e che si sommano a quelle dell’Autorità Sanitaria. Analisi che assicurano al cittadino, che usa e beve questa acqua, valori conformi con i nuovi criteri di qualità dettati dal Dlgs 31/2001, entrato in vigore nel dicembre 2003.


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