Casa Editrice Online

Riemerge il tempio di Giove


Gli scavi sotto il Campidoglio portano alla luce le fondamenta del più famoso tempio della Roma antica: il tempio di Giove.
I lavori di ristrutturazione dei Musei Capitolini hanno por­tato a uno straordinario rinvenimento nell’ambito dell’area sottostante il cinquecentesco palazzo Caffarelli ove era già nota, grazie agli scavi ottocenteschi e agli studi di Rodolfo Lanciani, la presenza dei resti del tempio di Giove Capitolino, il più importante e famoso edificio di Roma antica.

Il tempio, di dimensioni eccezionali, dedicato alla triade capitolina – Giove, Giunone, Minerva – era stato innalzato nel corso del VI secolo a.C. sull’altura meridionale della collina del Campidoglio. Le fonti letterarie di epoca augustea, e in particolare Livio nelle sue Storie e Dionigi di Alicarnasso nei libri, in greco, sulla storia antica di Roma, raccontano la natura del sito e i fatti miracolosi che accompagnarono i momenti della costruzione delle imponenti opere avviate da Tarquinio Prisco e in seguito condotte a termine da Tarquinio il Superbo, per testimoniare con questo grandioso monumento la forza del loro potere tirannico.

Dionigi di Alicarnasso fa risalire l’inizio della costruzione del tempio di Giove Capitolino all’ultimo periodo del lungo regno del primo Tarquinio, esattamente agli anni 583-579 della cronologia varroniana, e risolve uno dei punti più controversi relativi agli aspetti dell’edificazione, attribuita dalle fonti ora all’uno ora all’altro Tarquinio: vengono così riferiti a Tarquinio Prisco la progettazione e l’impianto dell’immenso edificio con l’innalzamento di grandi muri di sostegno, mentre apparterrebbe a Tarquinio il Superbo la costruzione complessiva. L’assassinio del primo avrebbe infatti causato una lunga interruzione dei lavori, coincidente con il regno di Servio Tullio che avrebbe privilegiato, per motivi politici, la costruzione del tempio di carattere plebeo della Diana di Efeso sull’Aventìno. La costruzione del tempio di Giove Capitolino sarebbe stata perciò ripresa soltanto molti decenni più tardi, con l’avvento al trono del secondo Tarquinio. Questi era riuscito a impadronirsi del regno grazie agli intrighi della sua seconda moglie, Tullia, figlia di Servio: costei, animata da perfida ambizione e smodata sete di potere, non aveva esitato a istigare Tarquinio a conquistare il trono con ogni mezzo e aveva spinto la sua folle crudeltà fino al punto di passare con il cocchio sul cadavere del proprio padre, trucidato e giacente sulla via che, proprio da questi eventi, avrebbe preso il nome di via Scellerata.

Dopo la descrizione di questi drammatici fatti e delle molte guerre combattute da Tarquinio nei suoi ventiquattro anni di regno, Livio ricorda come il re, a seguito della presa di Gabi e del rinnovo dell’alleanza con gli Etruschi, rivolgesse «il pensiero alle faccende urbane, la prima delle quali era lasciare il tempio di Giove sul monte Tarpeio come memoria del suo regno e del suo nome». Una serie di prodigi manifestò il gradimento degli dei per questa impresa straordinaria: Tarquinio il Superbo, avendo deciso di utilizzare l’intera area capitolina nella costruzione del tempio, aveva chiesto di exaugurare tutti gli edifici sacri esistenti sulla cima del Capitolium, ma mentre gli auspici approvarono la sconsacrazione di tutti i santuari, non l’ammisero per ilfanum di Terminus, il dio che tu­tela i confini. Il mancato allontanamento di questa divinità, il cui altare trovò dunque posto all’interno della cella di Giove, fu interpretato come un buon auspicio per la stabilità delle cose romane. Un analogo significato di eternità e di
grandezza dell’impero fu attribuito al ritrovamento, mentre si scavava per la fondazione del tempio, di una testa umana con il volto ancora integro.

Altre notizie di estremo interesse, per la conoscenza della situazione politico-sociale di Roma in età arcaica, riguardano la manodopera utilizzata per la realizzazione di questa impresa gigantesca che non trova confronti in ambiente etrusco-italico nella stessa epoca. Tarquinio fece venire a spese pubbliche artisti e artigiani da ogni parte d’’Etruria, ma utilizzò pienamente anche la plebe, ritenendo che «la numerosa popolazione, se non si poteva usarla, era di peso alla città». I finanziamenti per la ripresa dei lavori provenivano dal bottino ottenuto con la conquista di Suessa Pomezia, ma per quanto ingenti – assommavano infatti a quaranta talenti d’argento – essi risultarono inadeguati alla grandiosità dell’opera e furono assorbiti dalle spese per le sole fondazioni del tempio. Per la decorazione di questo immenso edificio, un periptero sine postico, ossia circondato da colonne su tre lati con esclusione del lato di fondo, furono chiamati secondo la tradizione ceroplasti da Veio, la vicinissima città etrusca che ha restituito, dagli scavi degli anni Trenta, straordinarie opere in terracotta, tra cui la famosa statua di Apollo.

Il nome dell’artista veiente Vulca è legato alla realizzazione della grande statua di Giove collocata nella cella centrale del tempio. Il dio, rappresentato sedente, aveva un fascio di fulmini nella destra e indossava le insegne e gli abiti tipici della regalità etrusca. Tarquinio il Superbo aveva affidato ad artisti di Veio anche la realizzazione della grande quadriga di Giove che venne collocata sul culmine del tetto come acroterio e che fu protagonista di uno strano prodigio riportato da Plutarco: mentre la scultura in terracotta si trovava dentro la fornace per la cottura, essa anziché ridursi cominciò a crescere, quasi lievitasse, e crebbe così tanto che fu necessario rompere il forno per poterla estrarre. Il fatto fu interpretato dagli haruspices come un presagio di potenza per il popolo che avesse posseduto la quadriga e in conseguenza di ciò i Veientì, restii a consegnare l’ope­ra, vi furono costretti solo con la forza.

Nonostante l’impegno posto dai Tarquini nell’edificazione del tempio di Giove Capitolino in cui erano anche conservati i libri sibillini, il santuario fu inaugurato solo dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo, all’inizio della re­pubblica. Il console M. Grazio Pulvillo, favorito dalla sorte per l’inaugurazione del tempio, mentre si apprestava a compiere questa funzione fu raggiunto dalla notizia dell’improvvisa morte del figlio e tuttavia, ritenendo di non poter interrompere il rito iniziato, procedette alla cerimonia della dedica che avvenne, secondo la tradizione, il 13 settembre del 509 a.C. Il tempio eretto sulla cima del Capitolium doveva innalzarsi, con la sua ampia mole, isolato su di un alto podio, orientato secondo un asse Ne-So con la fronte verso il Palatino: l’edificio di pianta quasi qua­drata aveva una lunga scalinata d’accesso sulla fronte esastila e un profondo pronao, caratterizzato da una duplice fila di colonne parallele a quelle della facciata, su cui si aprivano tre celle che custodivano i simulacri delle divinità ed erano fiancheggiate da due colonnati laterali. Il tempio della triade capitolina è ricordato dagli antichi per la grandiosità del suo impianto che rimase inalterato. Gli autori dei rifacimenti resi necessari a seguito della distruzione provocata dai terribili incendi che sotto Siila (83 a.C.) e i Flavi (69 d.C.) devastarono l’intero colle capitolino, non modificarono, per rispetto ai vincoli di carattere religioso, né le dimensioni né la pianta dell’edificio arcaico, ma si limitarono a sostituire le decorazioni in terra­cotta e bronzo con marmi e materiali preziosi. Una testi­monianza indiretta di questa straordinaria ricchezza decorativa si ricava dalle notizie relative ai primi ritrova­menti e alle spoliazioni cinquecentesche.

I grandiosi resti del tempio conservatisi fino alla metà del Cinquecento alle spalle del palazzo dei Conservatori e trasformati in una collinetta artificiale, subirono una si­stematica spoliazione proprio in concomitanza con la co­struzione del palazzo di proprietà dei Caffarelli: preziosa in tal senso è la testimonianza di Flaminio Vacca, che ri­corda come «sopra il monte tarpeo dietro il palazzo dei Conservatori, verso il carcere Tulliano» fossero stati sca­vati «molti pilastri di marmo statuale con alcuni capitelli tanto grandi». Uno di questi capitelli fu utilizzato dallo stesso artista per scolpirvi «il leone per il granduca Ferdinando nel suo giardino alla Trinità», mentre gli altri servirono al cardinale Cesi che fece fare da Vincenzo de Rossi «tutte le statue e i profeti della sua cappella in Santa Maria della Pace».

Alla drammatica distruzione degli splendidi marmi greci, dei quali non è rimasto in Campidoglio che qualche frammento di colonna, seguì in maniera ancora più radicale l’asportazione dei blocchi delle fondazioni, ampia­mente utilizzati come materiale di cava per costruire nu­merosi edifici del colle e per farne pozzolana. Questo sistematico prelievo dei muri di fondazione del tempio si è interrotto solo all’altezza del piano di spiccato di Palazzo Caffarelli e quindi la tessitura muraria, ancora oggi conservata, riflette la grandiosa tecnica costruttiva dell’edificio a una profondità di circa cinque metri rispetto al livello originario. La grandiosità dell’impianto, che si estende per un perimetro di circa 300 metri quadri, è tuttavia resa evidente dai superstiti filari di blocchi, di larghezza compresa tra i 4 e i 6 metri, che scendono nel terreno argilloso fino a circa 7 metri, raggiungendo il banco di tufo del colle.

Le recenti scoperte giustificano ampiamente le notizie ricavate dalle fonti, che attestano il perdurare, senza modifiche, di queste fondazioni e quindi delle dimensioni dell’edificio per gli oltre suoi mille anni di vita. Grazie ai nuovi elementi conoscitivi che possono ora desumersi dall’esplorazione stratìgrafica che, per la prima volta, ha interessato un’area particolarmente estesa ed è stata condotta fino a notevole profondità, anche nel perimetro esterno al tempio, è stato possibile definire le dimensioni degli ambienti interni e del pronao. Le celle risultano ripartite secondo il rapporto vitruviano di 3-4-3: lo spazio centrale, più ampio, apparteneva al simulacro di Giove che aveva, a destra, la cella dedicata a Giunone e, a sinistra, quella dedicata a Minerva. L’acquisizione di questi fondamentali dati conoscitivi consente di porre finalmente un punto fermo su temi a lungo dibattuti dagli studiosi. L’argomento principale della discussione aveva origine dal fatto che pareva assolutamente improbabile che nella Roma arcaica potesse esistere un edificio templare di dimensioni così grandi da coprire, con i suoi lati di ben 62,25 metri di lunghezza per 53,50 metri di larghezza, un’area di circa 3.000 metri quadri. Il problema può essere finalmente risolto in favore di coloro che, ritenendo validi i dati dimensionali riportati nel passo di Dionigi, sostenevano che l’intera area interessata dalle grandiose fondazioni apparteneva al tempio e non a una platea, all’interno della quale fosse compreso un edificio sacro di dimensioni minori.

Anche se del tempio di Giove Capitolino, noto fin dalla tarda antichità per l’impressionante preziosità del suo apparato decorativo e scultoreo, non sono rimasti che i muri di fondazione della fase più antica – o forse proprio per questo – le scoperte odierne e lo scavo sistematico intrapreso nell’area del Giardino romano, propedeutico alla realizzazione di una grande sala ve­trata per l’esposizione dell’originale bronzeo del Marco Aurelio, assumono un significato fondamentale, non solo per le fasi più antiche del santuario, ma anche per la storia del colle capitolino. L’estendersi dell’esplorazione all’area esterna al tem­pio ha consentito d’indagare il terreno circostante in cui si sono evidenziate consistenti tracce di vita risalenti al periodo tra il XIII e il VI secolo a.C.: in questo senso gli scavi in corso possono rappresentare l’elemento di raccordo tra i dati che precedenti esplorazioni, sempre molto parziali, avevano lasciato intravedere. Ad esempio, il consolidarsi del carattere sacro della cima del Capitolium sul finire del periodo orientalizzante recente, nel corso del VII secolo a.C., si delinea più chiaramente.

La tradizione che poneva sul Campidoglio la leggendaria città di Saturno sembra ora trovare le sue radici nei ritrovamenti che si riferiscono ai livelli che precedono la fondazione del tempio, ricchi di materiali che testimoniano la presenza in quest’area di un abitato a continuità di vita tra l’età del bronzo e la prima età del ferro. Con il completamento degli scavi e con la loro sistemazione che li inserirà nel percorso di visita, il complesso museale capitolino, che al termine dei lavori di ristrutturazione verrà aperto al pubblico completamente rinnovato nei suoi spazi espositivi e di servizio, sarà così in grado di offrire anche un itinerario archeologico di straordinaria suggestione.


Aggiungi un commento