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La donna dalla preistoria al mondo greco-romano


Il Matriarcato
La donna sottomessa all’uomo? Non è andata sempre così…analizzando la storia dell’umanità dai tempi della preistoria, nell’area culturale a cui apparteniamo, cioè in Europa tra il 7000 e il 3500 a.C. secondo l’ipotesi dell’archeologa Maria Gimbutas, esisteva una società diversa dal matriarcato sostenuto da Banchofen, ma molto simile, visto che le donne vi avrebbero svolto un ruolo dominante come sacerdotesse o capi clan e la vita, non solo umana ma dell’intero cosmo, sarebbe stata governata da una Grande Dea, simbolo della nascita, della morte e del rinnovamento.
Dunque, di fronte a questo potere al femminile, viene da chiedersi da quando la differenza biologica venne teorizzata e codificata al punto di levare alla donna la titolarità dei diritti soggettivi e il loro esercizio?
Andiamo a ritroso nel tempo….

Area del Mediterraneo
Nonostante il passare dei secoli nelle società del bacino del mediterraneo, presso la civiltà egizia, etrusca e minoica la posizione della donna era elevata, partecipava cioè alla vita sociale, politica e religiosa, conservando perfino le funzioni sacerdotali, risalenti all’età preistorica. Ma in Grecia, a partire dai regni micenei (intorno al 1400 a.C.) finisce con il prevalere un’organizzazione tipicamente militare, per cui a causa della differenza biologica aumenta la supremazia del maschio nei confronti della donna, prova ne è che accanto al culto della Grande Dea, la Potnia, si affiancano le divinità maschili e per la donna inizia la decadenza.
Infatti la superiorità della cultura patriarcale e il declino del senso dell’umano e del sacro insito nella donna non iniziano quando l’uomo primitivo si accorge che nella nascita di un nuovo essere è parte in causa, non sorgono da quando l’uomo va a caccia, perché in contemporanea grazie alla donna si viveva di caccia, di raccolta e di una primitiva agricoltura di cui le femmine erano detentrici, come dell’arte della tessitura; cominciano quando inizia l’ostilità, che prima era sotto controllo all’interno del clan, tra villaggi, per il possesso di nuove terre e ricchezze, è allora che divengono importanti i maschi valorosi e tra loro quello più forte, sono loro che assicurano la vita e la sopravvivenza dell’intera struttura sociale e la donna, poco a poco e sempre più, viene relegata in un ruolo di riproduttrice.

Più le guerre divengono impegnative (basta pensare alla mitica guerra di Troia, durante la quale i capi e il loro esercito sono stati lontano da casa per dieci anni), più ci si allontana, dalle mura domestiche e dai loro affetti, per lunghi periodi per andare a colonizzare nuove terre, e più l’uomo vuole essere certo che la propria donna concepirà solo il frutto del suo seme; diviene tristemente consequenziale il successivo passaggio dell’isolamento della propria compagna nelle zone più appartate della casa, il gineceo, con l’unica funzione di far figli.

La triste eredità ateniese

donna-greca

All’arrivo delle prime leggi scritte nel VII sec.a.C. divenne codificata e pertanto resa definitiva l’esclusione dalla polis di due categorie sociali: gli schiavi e le donne.
La donna passava il tempo segregata in casa quindi, al di là del compito di far figli, non era produttiva nell’ambito del patrimonio familiare.
Per un padre la nascita di una femmina non era certo un buon investimento, tanto che spesso si ricorreva all’abbandono delle neonate: “un figlio maschio lo alleva chi è povero, ma una figlia femmina la espone anche chi è ricco”(Posidippo):  l’esposizione era praticamente l’atto con il quale il padre abbandonava la bimba appena nata, in una pentola di coccio; in genere chi la raccoglieva lo faceva per avviarla alla prostituzione.
Chi teneva la figlia, oltre alle spese per nutrirla fino all’età fertile, doveva darle pure una dote quando si sposava, a simboleggiare che rinunciava con essa all’eredità paterna. In taluni casi, per conservare la proprietà, si arrivò a superare il tabù del matrimonio tra sorella e fratello nati dallo stesso padre (ovviamente non quelli nati dalla stessa madre) per non fare uscire la dote da casa! Forse era peggio se la donna non si sposava, perché proseguiva a gravare sul bilancio familiare, al punto che il padre poteva disfarsene vendendola come schiava. Si può dire che era più fortunata colei che apparteneva a classi povere, in quanto poteva mischiarsi agli uomini per andare a lavorare la terra o recarsi al mercato. Vuota e triste era la vita della donna di classe alta o media, che non   riceveva alcuna educazione, né a scuola, né a casa, per di più non aveva neanche la sicurezza di un rapporto esclusivo con il marito, che poteva godere tranquillamente di tre tipi di donne.

La prima era la moglie, tenuta solo per avere figli (poiché assolto il compito, rischiava di essere ignorata dal marito, per legge fu imposto di avere almeno tre rapporti sessuali al mese!).  Bisogna riconoscere tuttavia che i matrimoni venivano combinati dai genitori e la donna, ignorante e segregata, non doveva essere un granché come compagna di vita, tanto più che per barcamenarsi in tale triste esistenza, aveva imparato ad aggirare l’ostacolo con astuzie, mezzucci e “lingua lunga”!
La seconda donna di cui il maschio poteva disporre era la concubina, tenuta per i rapporti stabili.
La terza è l’etéra, cercata per il piacere, professionalmente educata anche alla discussione (che le mogli, a cui era negata l’istruzione, non erano in grado di sostenere) e ad accompagnare l’uomo dove le altre due non potevano seguirlo.
C’era poi la prostituta, sia di condizione servile, sia esposta. La prostituzione in Grecia non era punita, anzi era proprio la legge a fissare il limite massimo della tariffa spettante, oltre che a stabilire l’imposta sul reddito.
Uno spiraglio nella triste condizione femminile si era avuto con filosofi del genere di Socrate, che affiancato dalla saggia Aspasia, si era convinto che tutti i mali nascevano dalla mancanza di educazione e riteneva che per le donne fosse possibile una realizzazione personale ed intellettuale, non necessariamente legata alla maternità.
Inoltre il filosofo Platone, da alcuni additato come femminista, era per l’abolizione della proprietà e della famiglia, in quanto istituzione in cui si accumula ricchezza; secondo lui le donne dovevano essere comuni a tutti, affinché non si sapesse di chi fossero i figli. Così l’elemento femminile della città, liberato dal ruolo familiare che ne creava la subalternità, poteva e doveva cooperare insieme agli uomini alla gestione della politica.
Purtroppo subito dopo il grande filosofo-catalogatore  Aristotele, stabilì che l’uomo è forma e spirito, attivo e creativo, mentre la donna è unicamente materia. Con lui purtroppo l’idea della superiorità maschile fu tristemente dogmatizzata e rimarrà in essere per tantissimi secoli, fino all’epoca moderna.

Molto peggio va in letteratura, basta leggere i poemi omerici, quali l’Iliade e l’Odissea, per comprendere le reali condizioni di sottomissione della donna greca. Ed Esiodo, quando parla della creazione, tratteggiando la prima donna chiamata Pandora, la definisce “l’inganno al quale non si sfugge” mandata sulla terra da Zeus per punire gli uomini. E ancora Euripide chiede a Zeus: ”perché hai dunque messo tra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole?”.
Se poi nelle tragedie ci troviamo di fronte a donne forti e volitive come Antigone o Medea, che arriva ad uccidere i propri figli, ci rendiamo tristemente conto che la donna trova la forza di ribellarsi al suo triste destino solo quando viene tradita o abbandonata. Del resto se venivano presentate al pubblico commedie o la tragedie con tali contenuti, significa che trovavano consenso presso gli uditori, in quanto rappresentavano lo sfogo del vissuto quotidiano, anche se bisogna notare che si tratta pur sempre di letteratura coniugata al maschile. Infatti manca quasi del tutto la voce della donna, che come si è già detto viveva in una situazione di segregazione e incultura, tanto che ben poche donne sono riuscite a rompere il silenzio, ma solo in zone etnicamente e culturalmente diverse da Atene. La più famosa è Saffo, passata alla storia per le sue tenere poesie dedicate ai suoi amori femminili. Nata a Lesbo, fu a capo, a Mitilene, di un collegio per ragazze di buona famiglia, nel quale accorrevano da ogni parte della Grecia le fanciulle aristocratiche, per acquisire un’educazione raffinata (ovviamente finalizzata a divenire bravi mogli) attraverso lo studio della musica, del canto, della danza, nonché apprendere le armi della seduzione e del fascino, supportati dall’abilità a valorizzare e potenziare la bellezza. Insomma in quei rari casi in cui alla donna fu offerta la possibilità d’acculturarsi poté dimostrare le proprie capacità intellettive, inoltre ricevettero dal loro stesso sesso quello che la segregazione e la monogamia impedivano di prendere dagli uomini. Tuttavia si sa molto meno dell’amore tra donne che non tra uomini, perché a  differenza dell’omosessualità maschile, quella femminile non era strumento di formazione del cittadino. Quindi all’elenco, fatto in precedenza sulle tipologie di donna di cui l’uomo poteva godere, possiamo aggiungere l’omosessualità, rapporto nel quale (secondo l’uomo greco) il giovane apprendeva le virtù maschili dall’amante, che così esprimeva la sua intelligenza, la volontà di migliorarsi e dunque l’affettività al livello più alto.

Ad Atene qualcosa cambia
Ma per la donna qualcosa cambia tra il IV e I sec.a.C. in quanto assistiamo all’ avvio verso una condizione giuridica di parità, dovuta ad un cambio di potere: alla polis greca subentrò la monarchia macedone, che risentì dell’influsso dell’Egitto, che da secoli aveva riconosciuto alle donne capacità e diritti. Finalmente anche la donna greca (affrancata dalla giurisdizione paterna e maritale) poté comprare e vendere mobili e immobili, costituire ipoteca sui propri beni, concedere ed ottenere prestiti, assumere obblighi di lavoro, fare testamento, essere istituita erede, ricevere legati, e volendo, concludere personalmente il suo contratto di matrimonio; se vedova o non legittimamente sposata poteva esercitare sui figli la materna potestas. Accanto ai diritti arrivarono anche gli obblighi, come quello di provvedere al mantenimento dei figli, dopo la morte del padre e, grazie al vento di una ritrovata libertà, poteva girare per le vie di Atene, frequentando negozi e botteghe! Si arrivò persino a contestare il diritto del padre di interrompere il matrimonio delle figlie (che mirava a riprendersi la dote!).

A tutto ciò qualcuno reagisce con i luoghi comuni, per cui si dice che. “ubriacandosi sono infedeli e per di più bugiarde”, non per niente alla donna era vietato bere vino, sono poi continuamente alla ricerca di piacere, in mancanza di uomini cercano soddisfazione ricorrendo ai famosi falli di cuoio; se mai sono ricche, sono una vera sventura, perché la loro prepotenza non ha limiti e come dice Anaximandrides: “ chi essendo povero sposa una moglie ricca, non ha una moglie, ma un padrone”.

La donna romana
In Italia, andarono a morire gli antichi privilegi della donna etrusca: la partecipazione ai banchetti sdraiate come gli uomini (le romane dovevano stare sedute e potevano partecipare solo alla prima parte durante la quale non si beveva vino), avevano accesso alla cultura, sapendo leggere e scrivere. Purtroppo la civiltà etrusca sebbene estesa, fondava il suo potere sulle singole città, per cui fu spazzata via dai Romani, che da subito intrapresero una tattica espansionistica, che li portò ad imporre, come in ogni civiltà guerriera, il patriarcato. Certo la matrona romana godeva di una posizione sociale migliore di quella ateniese, non era segregata in casa e poteva uscire liberamente,  educava da sola i propri figli, dando uomini “forti” allo Stato, e per questa sua funzione fu glorificata e se lo facevano significa che in qualche modo erano partecipi della vita degli uomini, per assimilare e trasmettere i valori.. Al contrario era deprecata quando volle intervenire sul controllo delle nascite, attraverso la contraccezione o l’aborto; se apparteneva ai ceti bassi per motivi economici, se alti per godere dei vantaggi della vita che non fossero solo la maternità.  Nella civiltà di Roma, in quanto civiltà militare, le regole giuridiche e lo schema della famiglia erano inflessibili, smisurati i poteri del pater familias che per secoli rimase possessore di figli e nipoti, che poteva vendere  in qualunque momento, o uccidere, rimaneva padrone perfino della figlia femmina sposata e ormai passata sotto la giurisdizione del marito. Anche il sacro familiare era gestito dall’uomo, infatti il Sacerdote dei Lari, i protettori della famiglia, era il padre. Le donne senza diritti politici e nella pratica senza quelli civili, non avevano neanche il “nome proprio” per essere appellate, erano messe in sostanza sotto tutela a vita e manifestavano il loro malcontento aderendo ai culti bacchici, durante i quali si sfogavano vivendo un “mondo alla rovescia”, in cui abbondava il vino, bevanda interdetta alle donne e ricorrendo ad accoppiamenti proibiti. Per vivere erano costrette ai sotterfugi, sono numerosi infatti i processi per avvelenamento, dei quali è incriminata la donna, detentrice di quel potere antico ricavato dalle erbe, che servivano al raggiungimento del bene, come del male. Le guaritrici erano pure le avvelenatrici di quegli uomini che arrivavano a farsi odiare, il veleno insomma paragonato alla spada tagliente, era più subdolo, faceva temere più una donna che un uomo.
I secoli che segnarono una emancipazione civile furono legati alla diffusione dei culti orientali, in particolare quello di Iside e del messaggio di Cristo. Ma fu proprio la nuova religione a far cadere nuovamente la donna nel baratro buio senza poter godere di un barlume di luce divina, e questo perché si tornò a decantare l’aspirazione alla castità, anche grazie all’influsso delle dottrine ciniche e stoiche che predicavano la liberazione dagli istinti; la donna torna indietro, è opera di Satana.

Unica a salvarsi è la Madonna, per la verginità codificata dai padri della Chiesa.
Insomma nel bene e nel male ancora e sempre in funzione del sentire maschile.


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