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Un euro l’ora


Ieri sera Santoro ha proiettato di nuovo le facce di quella fetta di Italia che lavora per pochi euro l’ora.

Immagino lo stupore dei benpensanti…

Con quella storia dell’operatrice di call-center, 4 volte madre, precaria e soggetta al ricatto salariale, che si trova nella condizione di non poter accettare la paga di due euro e cinquanta l’ora, perchè la babysitter ne costa fino a dieci…

Se non mi trovassi immerso in questa generazione disgraziata forse avrei parole migliori per parlare del precariato contemporaneo.

Se solo avessi belle speranze, contratti e magari qualche prospettiva di crescita.

Se solo avessi il fegato di ingoiare quel ricatto con leggerezza; come fanno in molti, volenti o nolenti.

 

Ma no, ancora non riesco a digerire questa cosa, è troppo vicina e troppo paradigmatica per razionalizzarla sulle pagine di un blog.

 

Semplicemente questa società è tornata a parlare di povertà, come fenomeno indigeno; si è tornati a parlare di sfruttamento del lavoro.

Quanto mi piacerebbe partecipare con foga e fervore ai dibattiti e alle polemiche che senza dubbio se ne potrebbero trarre, negli illuminati e liberali salotti della cultura.

Ma niente, questo fatto di esser parte in causa della contemporanea macelleria sociale paralizza la mia lingua normalmente attiva, prosciuga la mia penna fertile.

Le lotte per gli ultimi, le rivolte degli sconfitti sono nobili attività che rinfrancano lo spirito: ben altra cosa è l’essere effettivamente poveri, partecipare in prima persona alla crisi economica contando le miserie sociali che si manifestano direttamente nel portafoglio, e nel frigorifero.

Quando lo stomaco langue le lingue si tacciono , e le mani si stringono nervose.

Sudore e lacrime non sono sufficienti a colmare il calamaio, e guardo spesso la penna con occhi pieni d’imbarazzo.


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